Si parlava di gabbiani l’altra sera a casa di amici.
Eravamo in una grande terrazza, fresca finalmente dopo la calura meridiana, si annunciava un tramonto glorioso di toni…
Si parlava di gabbiani l’altra sera a casa di amici.
Eravamo in una grande terrazza, fresca finalmente dopo la calura meridiana, si annunciava un tramonto glorioso di toni intermedi: violetti, infinite tracce di azzurro e grigio velate di amichevoli strie bianche, qualche accenno di giallo,di rosa… Un’aria gentile s’insinuava dal colle del Gianicolo a giocare con i nostri vestiti leggeri, invitandoci a respirare la bellezza che si affacciava tutt’intorno.
Illuminata appena, la facciata di San Pietro in Montorio, con qualche spruzzo di esili palme intorno, dominava il paesaggio. Impossibile vedere altro, sembrava emergere nel silenzio quasi buio e sedurre lo sguardo, lasciando apparire tutto il resto come un residuo irrilevante.
Tutto il resto – il residuo irrilevante… – erano scorci dell’incanto della città, da scoprire e ritrovare,nuovi nelle prospettive sconosciute di quella terrazza: sassi, pietre, boschetti, pini…
Già solo per questo contesto straordinario sentivo che si preannunciava una serata di benessere, a cui si sarebbe sicuramente aggiunto cibo delicato e salutare e buona conversazione. Il cielo del tramonto, solcato dalle grida acute dei gabbiani dalle larghe braccia e animato dai loro voli liberi e turbinosi dava al paesaggio un che di straniato e misterioso, degno di narrazioni arcaiche e di fratellanze originarie tra uomo e natura.
Sulla terrazza di un palazzo vicino attraeva la nostra attenzione un nido di gabbiani, ormai quasi abbandonato, che aveva custodito tre pulcini grigiastri, a questo punto grandi come polli e dall’atteggiamento richiedente e piagnucoloso, che venivano nutriti con determinazione dalla madre, mentre il presunto padre, da un comignolo di fronte, si stagliava superbo, commentando sonoramente la scena e scuotendo di tanto in tanto le sontuose ali bianche, all’apparenza in segno di approvazione e incitamento.
Fummo tutti conquistati dal paesaggio, dai voli, dai suoni. Io ero commossa, come sempre mi accade nell’incontro con la natura libera. La visione di quella incomparabile bellezza reincantava il mondo e rendeva nuovo lo sguardo convenzionale sulle cose. Il ‘miracolo’in cui eravamo immersi ci consentiva di respirare più liberamente, ci rendeva forse migliori e sicuramente più felici.
Qualcuno introdusse infelicemente la questione, ormai annosa, dei gabbiani a Roma…
Ci volle poco perché l’incanto fosse distrutto da argomentazioni povere di ragioni e da connessioni miopi e più che altro prive di lungimiranza.
In accordo allo stile comunicativo, pubblico e privato, di questa nostra epoca irriverente verso la comprensione complessa dei fenomeni e mutilata della capacità di uscire dalla dimensione biecamente egoistica ascoltando le dinamiche del tutto, qualcuno abbozzò una sbrigativa teoria dello sterminio dei fastidiosi uccelli, non solo ‘inutili’ ma anche dannosi, per liberare definitivamente la città dal ‘problema’. La protervia con cui la teoria veniva sbandierata e difesa denotava una rozzezza che feriva e mi faceva male.
La missione sembrava dunque quella di ripulire la nostra amata città da ciò che disturba, sporca, fa rumore, crea disordine, da ciò che appare imprevisto e incompatibile con le nostre ben congegnate previsioni. Dalla vita insomma… Ma chi è disturbato dai gabbiani? mi chiedevo. Sono forse loro che hanno realizzato le discariche nelle quali vanno a cercare nutrimento, esportandone disordine e immondizia? Ma soprattutto: è possibile la vita senza sporcizia, rumore, disordine, imprevisti… ?
L’immagine di una città in cui tutto fosse preordinato, l’incertezza e la diversità bandite, mi sembrava un incubo da fine della civiltà, un’utopia contro natura. L’idea di poter correggere sistematicamente la vita mi si presentava come un’impresa mortifera, oltre che votata senza dubbio al fallimento. E infine, ragionando sempre per opposizioni sommarie, a chi demandare il compito di distinguere ciò che è utile da ciò che non lo è – e da quale punto di vista? –, di stabilire ciò che è bello, buono, salutare rispetto a ciò che è il suo contrario?
In un mondo così spoglio e senza poesia cosa mai avremmo potuto ascoltare al posto del canto del mare e dei gridi dei gabbiani al tramonto? Il rumore soffocante del traffico, forse?
Nelle sciocche intenzioni di alcuni dei commensali mi sembrava di indovinare che il mondo senza gabbiani sarebbe stato solo il preludio a una correzione generalizzata della vita, che avrebbe fatto piazza pulita di altri elementi di disturbo, di altri rumori, di altro disordine, di altri imprevisti, e soprattutto di altre diversità, di altri uomini. Una volta messa mano all’opera… perché arrestarsi allo sterminio dei gabbiani?
Il sogno di una padronanza incontrastata sulla natura e su quella parte di mondo che consideriamo di diritto come nostra si scontra con ostacoli che, in un’ottica contronaturale, si ritiene di poter eliminare, anche in modo radicale. Si possono mettere in campo strumenti potenti per distruggere ciò che ostacola la signorìa assoluta di una parte degli uomini su una parte del cosmo, per annientare ciò che disturba i piani di questo omuncolo sfacciato e pavido, che teme sopra ogni altra cosa di poter precipitare dal centro dell’universo in una periferia anonima, segnata dall’incertezza e dal rischio.
La missione, impossibile e fallimentare, sembrerebbe dunque quella di ripulire, correggere, eliminare, escludere, forse sterminare, al fine di una compiuta padronanza, sebbene questa signorìa condanni l’uomo ad abitate un mondo brutto, meccanicamente preordinato, stremato probabilmente da un caldo soffocante, devastato da orribili catastrofi naturali.
Un deserto post umano.
Quasi senza volere mi ero rifugiata in un angolo solitario della bella terrazza, avevo chiuso gli occhi allungando il corpo su una sdraia comoda. Le voci lontane blateravano di stermini, ma i gabbiani gridavano più forte e l’aria fresca dominava, lei sì, incontrastabile…
Il segugio di casa abbatté il suo corpaccione ruvido e caldo sul mio fianco e allungò il muso sulle mie gambe, bofonchiando amoroso.
Ma sì…, lontano dalle chiacchiere boriose, c’era ancora uno spiraglio di paradiso.