#SDGspertutti: 10 - Ridurre le disuguaglianze

 

Ridurre l'ineguaglianza all'interno di e fra le Nazioni": così recita l’Obiettivo 10.

Continuiamo nella nostra esplorazione non convenzionale degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU per avvicinarli alla vita quotidiana di ciascuno, questa volta ci dedichiamo all'Obiettivo 10, "Ridurre l'ineguaglianza all'interno e fra le nazioni".

Il tema della disuguaglianza economica e sociale, all’interno delle società e fra le società, ha assunto via via negli ultimi anni una rilevanza sempre maggiore e alle disuguaglianze crescenti viene attribuita anche molta della responsabilità della crisi sistemica in cui è immerso il nostro mondo contemporaneo. Questo, infatti, è sempre più connotato da profondi processi di interdipendenza e terreno di conflitti diffusi e aspri. Per questo non possiamo ignorare che anche per perseguire la pace dobbiamo lavorare sulle disuguaglianze, sulle iniquità nella distribuzione del reddito e della ricchezza, sulla disparità delle opportunità, dei diritti e delle tutele nel macro come nel micro delle nostre comunità.

Perseguire la pace e realizzare un mondo inclusivo  - al quale ogni persona possa sentire di appartenere e nel quale possa trovare il proprio spazio solo perché è un essere umano - sono ottime ragioni per cui tutti, dai governi sovranazionali, alle organizzazioni e imprese globali e giù, fino a ciascun@ di noi, singole e singoli cittadin@, dovremmo impegnarci nella riduzione delle disuguaglianze.

Il sociologo Goran Therborn, docente all’università di Cambridge all'inizio del suo The Killing Fields of Inequality scrive: "La disuguaglianza è una violazione della dignità umana; è la negazione della possibilità che ciascuno possa sviluppare le proprie capacità. Prende molte forme e ha molte conseguenze: morte prematura, salute cattiva, umiliazione, subordinazione, discriminazione, esclusione dalla conoscenza e/o da dove si svolge prevalentemente la vita sociale, povertà, impotenza, mancanza di fiducia in se stessi e di opportunità e possibilità della vita. Non è quindi solo questione delle dimensioni del proprio portafoglio. È un ordinamento socio-culturale che riduce le capacità, il rispetto e il senso di sé, così come le risorse per partecipare pienamente alla vita sociale" (Goran Therborn, The Killing Fields of Inequality, Polity Press, Cambridge 2013).

Il premio Nobel Amartya Sen sostiene la necessità di sviluppare e diffondere la consapevolezza della necessità di politiche dell'uguale rispetto, dipendenti dal riconoscimento dell'uguale importanza delle vite delle persone, politiche che devono tenere nel giusto conto le diversità tra le persone, sia in termini di capacità e di possibilità che di deficit, consentendo loro di scegliere il proprio progetto di vita, di scegliere chi essere. Le politiche dell'uguale rispetto mirano a ridurre le situazioni di umiliazione e di degradazione delle persone, le situazioni di segregazione, le situazioni di sfruttamento e di ‘utilizzo’ di persone come arnesi da parte di altre persone, per esempio.

Uno degli effetti sociali più vistosi e dirompenti delle disuguaglianze è l'ingiustizia profonda e ingiustificabile prodotta dal semplice fatto di essere nati qui, lì o là: nessuno di noi ha scelto di nascere da una parte o dall'altra, in una famiglia o in nessuna famiglia, in un sesso o in un altro, con un colore della pelle piuttosto che un altro. Ma quando il nostro destino di vita, il nostro progetto di vita è plasmato e dominato dalla casualità della nostra nascita, qualsiasi idea di eguale considerazione e rispetto per le persone non trova più alcuno spazio.

Il filosofo americano John Rawls, teorico contemporaneo della giustizia sociale, ha scritto: "La distribuzione naturale non è né giusta né ingiusta; né è ingiusto che gli esseri umani nascano in alcune posizioni particolari entro la società. Questi sono semplicemente fatti naturali. Ciò che è giusto o ingiusto è il modo in cui le istituzioni sociali trattano questi fatti. Le società aristocratiche o castali sono ingiuste perché fanno di questi fatti contingenti la base ascrittiva su cui assegnare l'appartenenza ad una classe sociale più o meno chiusa e privilegiata. La struttura fondamentale di queste società incorpora l'arbitrarietà che troviamo in natura. Ma non è necessario che gli esseri umani si rassegnino a subire questi fatti contingenti. Il sistema sociale non è un ordinamento immutabile al di là del controllo umano, ma è invece un modello di azione umana. Secondo la giustizia come equità, gli esseri umani accettano di condividere i propri destini” (J. Rawls, Una teoria della giustizia, trad. it. di U. Santini, Milano, Feltrinelli, 2008).

Ulteriore effetto sociale dirompente delle disuguaglianze sociali ed economiche è la rottura del legame sociale, cosa che rende le nostre società sempre più connotate dalla sfiducia reciproca e nelle istituzioni. Viene meno, così, la consapevolezza civile che siamo sulla stessa barca e che ciascuno di noi deve qualcosa a ciascun altro, viene meno la consapevolezza, antica come l’umanità, dell’interdipendenza. Io esisto perché tu esisti.

Non ho ricette valide per tutti per contribuire alla riduzione delle disuguaglianze nelle nostre piccole comunità come nel mondo. So però che ognun@ di noi può fare molto anche se potrebbe sembrare poco.

E il primo passo da compiere è cogliere le disuguaglianze anche quelle che non vediamo più perché un determinato assetto economico sociale ci sembra ovvio. L'abbiamo sempre visto così e per questo ci sembra di origine 'naturale' quando invece, a una lettura più corretta, riconosciamo essere di natura 'culturale' e anche storicamente determinata.

Per comprendere meglio cosa intendo, può essere utile fare un esempio: nel nostro tempo, soprattutto nel mondo occidentale, si sente rivendicare a gran voce, anche nelle piazze, la richiesta di premiare il  'merito' del singolo individuo.

Non discuto qui se sia giusto o meno, sempre o meno, per tutti o meno. Mi interessa sottolineare che è fondamentale, se vogliamo fare un ragionamento corretto e non solo demagogico, rendersi conto che, nella maggior parte dei casi, quando ci riempiamo la bocca della parola ‘meritocrazia’ spesso dimentichiamo di guardare all’inizio della storia.

Se lo facessimo, facilmente ci renderemmo conto che all’inizio di quella storia c’è una situazione di opportunità ‘dispari’ che la condizioneranno per tutta la sua durata e ci balzerebbe agli occhi e, come già affermato sopra, che non c’è davvero nessun merito nell’essere nato qui o lì, in quella famiglia o in quell’altra, con certe caratteristiche o con altre.

Allora, per parlare correttamente e solo di merito, dovremmo poterci assicurare una verifica attendibile che all’inizio e in ogni capitolo di quella storia, della storia di quella persona o gruppo, le opportunità offerte siano state davvero ‘pari’. Sarebbe forse opportuno, talvolta, trovare criteri meno semplicistici e dotarci di ‘strumenti’ di valutazione più sofisticati?

Adoperarsi per ridurre le disuguaglianze al nostro livello di cittadini, professionisti, manager, politici, può significare almeno sentirsi quotidianamente impegnati a usare sempre le nostre capacità di pensiero critico, di ascolto e a disporre il nostro animo a provare empatia per l'Altro, sotto qualunque sembianza si presenti.
 
Pensiero critico e ascolto ci aiutano a riconoscere e apprezzare il valore delle diversità. L’empatia ad essere – e a creare dei contesti – realmente inclusivi.
Non è possibile, infatti, dare effettivamente pari opportunità se non ci si mette nella prospettiva, attiva e concreta, dell’inclusione che, pensiamoci bene, è cosa diversa da ‘integrazione’.
 
Includere vuol dire creare un ambiente capace di offrire pari opportunità a tutti così da consentire a ciascuna persona di realizzare pienamente il proprio potenziale e di essere se stessa e, per questo ‘diversa’ da noi e da tutte le altre.
 
E di che cosa è fatta la diversità? In che cosa siamo diversi? In cosa siamo simili? Possiamo tracciare dei confini fissi? Noi di qua, loro di là? Guardiamo insieme questo video
 
Interessante no? Anche emozionante, forse. Ma soprattutto molto efficace per aiutarci a comprendere che siamo tutti meravigliosamente diversi. E non solo o soprattutto nelle cose visibili, quanto piuttosto in quelle invisibili. E che tutte le caratteristiche che ci rendono diversi possono essere permanenti o temporanee, macroscopiche o microscopiche, percepibili o meno, eccetera, eccetera. 
 
Non voglio tirare delle conclusioni, voglio solo indurre una riflessione personale, diversa – un po’ o tanto – per ciascuna delle persone che siamo, consapevoli però, alla fine, che apparteniamo tutti alla specie umana.
 
Per aprirci a uno sguardo diverso sul mondo e sugli altri, di grande ispirazione può essere quello che scrive Edith Stein, filosofa tedesca del secolo scorso, a proposito dell’empatia.
Servendosi della ricchezza della lingua tedesca, Stein precisa che questa non è co-sentire (mit-fühlen), né una forma di immedesimazione completa e incondizionata nel vissuto dell’altro, non è simbiosi (eins-fühlen), ma è einfühlen, un atto complesso con cui si coglie l’altro nel suo modo unico e del tutto proprio, irripetibile, di essere. 
 
Edit Stein descrive l’atto di empatia come un "rendersi conto", un riscontrare la situazione di ciò e di chi si pone di fronte, uno stare a occhi aperti, vigilanti, pronti a farsi ‘toccare’.
 
«Nell’empatia colgo l’altro non solo come corpo, ma come corpo vivente, come essere vivente: oltre al corpo, colgo il soggetto che vi abita, colgo l’altro come persona spirituale e scopro che i suoi gesti, le sue parole sono motivati dalla sua struttura personale. E’ lo spirito dell’altro che parla al mio spirito. Lo sforzo di penetrare nel suo mondo di valori mi porta ad approfondire la conoscenza del mio Io, a confrontare il mio mondo di valori con il suo, a volte fa risvegliare quanto in noi sta dormendo e scoprire quello che siamo e quello che non siamo».
(Edith Stein, Il problema dell’empatia)

 

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