“Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un'occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti". E' il contenuto dell'Obiettivo 8 dell’agenda 2030 dell’ONU.
“Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un'occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti". E' il contenuto dell'Obiettivo 8 dell’agenda 2030 dell’ONU.
L’anno 2020, quello della pandemia e proprio in virtù di questa, si sta rivelando, seppure forzatamente, anche l’anno della più larga sperimentazione di modalità di lavoro da remoto.
No, non si è trattato e non si tratta di 'smart working', come molti lo hanno semplicisticamente definito (anche se questa espressione esiste solo in Italia), e neanche di lavoro agile perché, visto che abbiamo lavorato – e molti continuano a lavorare – solo da casa, seduti tutto il giorno davanti a uno schermo e spesso con dotazioni di fortuna, di agilità, nella nostra concreta esperienza, ce n’è stata ben poca. Abbiamo solo sperimentato, senza la possibilità di discuterne in anticipo, che è possibile lavorare in un posto diverso dall’ufficio, che è possibile non andarci tutti i giorni o forse anche mai.
La modalità di lavoro che abbiamo sperimentato, infatti, è quasi sempre priva dell’elemento essenziale che rende ‘agile’ il lavoro: la libertà di scegliere come alternare il posto, le modalità, gli strumenti e il tempo di lavoro. L’adozione di questo modello, inoltre, non è stata dettata da una scelta individuale libera, consapevole e ponderata, quanto piuttosto da uno stato di necessità e di coercizione, dal momento che la pandemia ha costretto le persone a ‘restare a casa’ e quindi ha reso anche il lavoro ‘casalingo’.
Generalmente, scegliere di cambiare il proprio modo di lavorare, richiede un’accurata valutazione e progettazione che ne individui i vantaggi per tutti, organizzazione e lavoratrici e lavoratori. In questo caso, però, ciò non è stato possibile: per assicurare continuità operativa alle attività delle organizzazioni, pubbliche o private che fossero, il cambiamento è avvenuto in maniera improvvisa e rapidissima, generando, in molti casi, un vero e proprio senso di disorientamento nelle persone.
Inoltre la situazione di costrizione in cui ci siamo tutti trovati non ha riguardato solo l’ambito del lavoro, ma la nostra intera vita, andando a sconvolgere il concetto stesso di ‘quotidiano’ e, in moltissimi casi, creando una vera sovrapposizione, potenzialmente pericolosa, tra sfera privata e sfera lavorativa.
Lavorando sempre e forzosamente da casa, i normali confini del tempo e dello spazio del lavoro sono stati stravolti, riscontrando frequentemente anche una certa dose di difficoltà nel definire uno spazio lavorativo all’interno del proprio ambiente domestico e ingenerando delle nuove abitudini spesso dannose ma già 'resistenti' a un nuovo cambiamento.
Un mescolarsi innaturale - e spesso poco consapevole – dei tempi e degli spazi, favorito dall’impossibilità di uscire a causa del lockdown e poi dalla semplice prudenza. Di mese in mese, prima nella grande incertezza di cosa potrebbe accadere se tornassimo tutti nelle nostre sedi di lavoro e ora nella consapevolezza che siamo in piena ‘seconda ondata’ della pandemia, abbiamo visto in noi un alternarsi di piacere e disagio che è stato più subito che scelto e governato da ciascun*.
Questo cambiamento, inoltre, non ha colpito tutti allo stesso modo, rendendo evidente la differenza di comfort tra coloro che lavorano in organizzazioni già precedentemente orientate verso nuovi modelli lavorativi e con una visione rivolta al futuro e alla sperimentazione del nuovo, e coloro che, invece, operano in organizzazioni propense alla conservazione, molto strutturate e, in generale, fondate sulla stabilità e sul controllo.
Le prime, nella maggior parte dei casi, sono state capaci di reagire con flessibilità al cambiamento, mantenendo il lavoro e un buon livello di soddisfazione delle persone; le seconde, invece, sono state travolte dalla nuova situazione e, non dimostrandosi pronte - sia dal punto di vista tecnologico che organizzativo - ad accogliere una novità di tale portata, non hanno potuto evitare disagi, inefficienza e nei casi peggiori la perdita del lavoro da parte di molte persone.
L’adozione, obbligatoriamente su larga scala, di quello che impropriamente tutti stiamo chiamando ‘smart working’, contribuirà certamente ad abbattere le resistenze al cambiamento lavorando, auspicabilmente, nella direzione di una migliore qualità della vita di lavoro e della vita in genere e di una maggiore sostenibilità ambientale e sociale delle attività lavorative.
Insieme alla costante e sempre più larga adozione di tecnologie nuove, dell’intelligenza artificiale, della ‘Internet delle Cose’, dell’automazione spinta, ciò che stiamo sperimentando in questo momento può contribuire significativamente al conseguimento dell’Obiettivo 8 dell’Agenda 2030 dell’ONU a condizione che tutt*, ciascun* nel proprio ruolo, siano capaci di immaginare e abbiano il coraggio di sperimentare nuove soluzioni, apprendendo giorno dopo giorno dall’esperienza. Per realizzare una trasformazione duratura del lavoro, che generi nuovo valore – tangibile e intangibile - per tutti, sarà necessario attivare, man mano che si uscirà dall’emergenza, un processo molto più ampio, che coinvolga diversi tipi di attori e ponga sempre al centro la persona.
Per evitare il rischio che in futuro lo ‘smart working’ venga associato alla forma di telelavoro male organizzato di cui abbiamo parlato e che le nuove tecnologie contribuiscano solo a ridurre le occasioni di lavoro colpendo prevalentemente i più deboli, è necessario valorizzarne gli elementi distintivi e far emergere le grandi opportunità che questi strumenti offrono nonché promuovere, dove possibile, una sana alternanza e/combinazione tra i diversi luoghi e modi del lavoro.
Ciò che ci muove, infatti, non è stare seduti davanti a un computer, ma il rapporto che abbiamo con le persone e la visione che il nostro lavorare contribuisce a realizzare, quello che gli anglosassoni chiamano ‘purpose’ e che potremmo tradurre in italiano con ‘proposito’. Tra l’altro i ‘luoghi di lavoro’ non sono solo spazi in cui vengono svolte attività produttive ma sono anche, molto più di quanto ne siamo consapevoli, territori di affetti, relazioni, emozioni, di costruzione di sé.
Abbiamo l’opportunità, oggi, di ripensare davvero il lavoro, i suoi contenuti e il suo senso oltre a ridefinirne luoghi e modalità. E’ un’impresa che ci coinvolge tutti e che nessuno sa, a priori, dove ci condurrà, cosa ci consentirà di realizzare. Richiede un grande sforzo di immaginazione e di intelligenza collettiva e la capacità di andare oltre il perseguimento di interessi singolari e/o contrapposti per ritrovarci uniti a guardare avanti, a un futuro più desiderabile, giusto e appagante per tutti al quale abbiamo la possibilità di dare forma.
E’ il momento di sentirsi protagonisti, di assumere ciascun* la propria responsabilità per se stesso e per il Mondo, di avere il coraggio di rischiare e la libertà di sbagliare perché nessuno ha ricette miracolose ma solo desideri, speranze, visioni che devono ritrovarsi in un grande e nuovo affresco collettivo che può, oggi, diventare realtà restituendo al lavoro la capacità di essere il luogo privilegiato dell’espressione dei talenti e della creatività umani.